L’addio a mia madre si è concluso ieri, in un ventoso pomeriggio, con il cielo che volgeva al brutto tempo. Le mie camere stagne si sono potute aprire, ho pianto tutto quello che potevo, e non avrei potuto trattenere una sola lacrima in corpo, bruciavano troppo.
Io non faccio parte della famiglia senza lacrime, e vista la fine che hanno fatto tutti (TUTTI) i componenti di quella famiglia, forse è un gran bene che io porti un cognome differente, e che sia in grado di piangere tutto quello che posso buttare fuori.
Ho detto a mia figlia, lunedì sera, di non trattenere il dolore dentro, perché dentro brucia e corrode e quindi dobbiamo buttarlo fuori. E ha pianto tanto, la mia bambina, e io l’ho lasciata piangere perché comunque, per una volta nella mia vita, non ho potuto essere lo scudo a proteggere mia figlia, non ho potuto salvarla da questo dolore, ho potuto solo parlarle e dirle che sì, la sua adorata nonna non c’è più, ma vive dentro di noi tutti, non solo dentro ai nostri cuori e ai nostri ricordi, lei vive dentro di noi in ogni nostro gesto, in ogni nostro comportamento, perché ogni volta che faremo o diremo qualcosa, sarà frutto di ciò che lei ci aveva insegnato, sarà sempre parte di noi.

Le persone come mia madre, sono quelle che quando mancano rimane un cratere grande grande. Una donna che la sera del rosario a lei dedicato, ha riempito una grandissima chiesa di gente, così tanta gente che non sono riusciti a sedersi tutti. Vuol dire che rimane un segno in ogni persona che l’ha conosciuta, del resto, il Generale ha sempre avuto una parola buona per tutti, non ha mai negato aiuto a nessuno, perfino negli ultimi giorni di vita, consolava una sua amica a cui era da poco morto un parente…
Ha affrontato la sua malattia con una forza, una dignità, un coraggio davvero inimmaginabili. Ha mantenuto fino all’ultimo il controllo, anche quando ormai il suo corpo era crollato. Se penso a ciò che deve aver provato, la rabbia del non poter più essere autonoma in nulla, il dover chiedere aiuto per ogni più piccola cosa.
Nell’ultima mezzora della sua vita, ormai delirante, in preda ai tremiti, stava ancora discutendo con qualcuno, ha puntato il suo dito verso il nulla, con quel suo gesto così tipico, e ha farfugliato “ma non glielo perdono, non glielo perdono!”. Poi mi ha cercato le mani e mi piace pensare che sapesse che erano le mie, anche se la certezza non l’avrò mai, perché quando l’ho raggiunta era ormai alla fine. Mi ha stretto le mani senza vedermi, poi ha chiamato il nome di mio padre e ha cercato di muoversi, mio padre si è avvicinato e ha suonato il campanello, abbiamo chiesto un ulteriore sedativo, vederla soffrire così era impensabile.
Siamo usciti, io e mio padre, mentre le infermiere le iniettavano una nuova dose e la ricomponevano, raddrizzandola e ricomponendole i vestiti in modo che fosse in ordine.
E quando siamo rientrati era lì coricata, con la maschera dell’ossigeno a cercare di prendere fiato, di respirare, ma ogni respiro era più difficile del precedente e sono rimasta lì seduta, in attesa che quel rantolo si esaurisse. Quando ha rallentato, poi smesso, ho chiamato mio padre che nel frattempo stava buttando via oggetti inutili, in preda alla disperazione più assoluta. L’ho portato al fianco di mia madre, io da un lato, lui dall’altro lato, una mano ciascuno sulla sua fronte, l’altra a tenere le sue mani. E inspiegabilmente ha respirato ancora, una sola volta, la mascherina si è appannata ed è stato il suo ultimo momento, fra le nostre braccia.

La sua dignità è stata sempre incrollabile, in questi ultimi mesi in ospedale, fino all’ultimo, si imponeva per lavarsi da sola (per quanto poteva), si pettinava prima di ogni collegamento via skype con la nipotina, non voleva farle vedere la sua malattia. Mi ricordo mia nonna (la madre del Generale) che quando faceva la chemio ed era senza capelli, mi vietava di entrare in camera o in bagno prima che fosse lei a darmi il “via”: voleva farsi vedere da me con la parrucca e con il reggiseno imbottito, perché le avevano esportato entrambi i seni. E mia madre, l’ultima sera in cui ha parlato al telefono con la sua nipote adorata (senza skype, era impensabile), con la maschera dell’ossigeno attaccata perché ormai non respirava più, la lingua ormai nera, ha detto alla bimba “Sto bene, tesoro, parlo male perché mi sono appena svegliata”.
Abbiamo organizzato le esequie pensando con il suo cervello, con i suoi desideri. L’abbiamo vestita, pettinata, mostrata più in ordine possibile. E la bimba, alla camera mortuaria, non l’abbiamo portata, perché mia madre non avrebbe mai voluto farsi vedere da lei “così”.
La sera del rosario ho quasi rischiato di arrivare tardi, perché la lavatrice aveva finito e dovevo stendere i panni prima di uscire, abbiamo steso io, mio padre ed M, quasi sorridendo, perché l’abbiamo fatto per lei, che non usciva di casa se non la lasciava lustrata. Se non stendiamo questi panni, ci siamo detti, stanotte ci viene a tirare i piedi!

Ho tanti piccoli momenti, di questi tre giorni di lutto, che vorrei ricordare per sempre.
So che il peggio deve ancora venire, e me ne accorgo perché le mie camere stagne mi fanno dimenticare che lei non c’è più, a volte, come ieri al funerale quando ho visto la BigLady presente, e avrei voluto chiamare mia madre e dirle: ma guarda chi sei riuscita perfino a far scomodare! Ma questi pettegolezzi non potrò più farli, ed ogni abitudine quotidiana in cui lei era coinvolta ora sarà diversa, e farà sempre più male andando avanti, perché non è vero che il tempo aiuta a guarire il dolore, lo modifica solamente.
Ho mio padre devastato, dopo 45 anni insieme non sa da che parte iniziare a vivere, lo impareremo tutti insieme, un giorno alla volta, un passo alla volta. Per ora voglio che rimanga con noi, finché non porteranno via quel maledetto letto antidecubito, mai usato, da casa sua. Finché ci sarà quell’orrore, mio padre a casa a dormire non ci torna, e sono stata categorica con lui e le sue insistenze. Stiamo insieme, spazio ce n’è in abbondanza.

Devo ancora capacitarmi che non devo più essere pallina rimbalzina, che questa sera dopo il lavoro andrò direttamente a casa e potrò, per quanto possibile, rilassarmi con la mia famiglia. Dopo due mesi serrati, è alienante cambiare i ritmi e riprendere a vivere…

Chiudo questo lunghissimo post con un’immagine che voglio condividere…
Domenica sera, quando mia madre si è aggravata, sulla città si è abbattuto un tifone che non se n’è mai visti così, in città. Ha imperversato tutta notte, ha rallentato quando sono andata in ospedale dopo la telefonata di mio padre, per poi riprendere in tutta la sua intensità fino al momento in cui mia madre è spirata. Dopo pochi minuti, il cielo si è aperto ed è apparso un arcobaleno grande e bellissimo.
Mia madre era una cattolica credente e praticante, e io non ho dubbio alcuno, che quell’arcobaleno fosse il Signore, venuto personalmente a prendersela per portarla con sé.

Buon viaggio, mamma.